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Visualizzazione dei post da maggio, 2010

Pizza a cì no' dice pizza!

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Una possibile sintesi di analisi semantica (Liberamente ispirato a “Tre civette sul comò” di Umbro Eco da “Il secondo diario minimo”) Ogni popolo ha come dotazione quasi genetica del proprio intimo culturale un modo di dire, una frase, un motto intorno a cui si stringono a coorte i suoi componenti, tal quali fedeli soldati intorno alla bandiera del loro reggimento minacciata da preponderanti orde nemiche. A Taranto si può affermare, senza grande tema di smentite, che tale vessillo è costituito dalla cinquina poetica: pizza a cì nò dice pizza cu a mane sobbra a pizza a cui tanti e tanti esegeti e dossografi hanno dedicato anni di studio e fiumi di inchiostro. Pur senza volerci minimamente paragonare a cotanti ingegni, non riteniamo inutile o vanaglorioso il tentativo di sintetizzare in poche righe, ad ausilio dei nostri fedeli lettori, le conclusioni e le opinioni degli illustri studiosi che a sì nota composizione hanno fornito luce e fama.

Le domande di Biwenabhirrha - Verità parziali

Un giorno Biwenabhirrha, il discepolo prediletto, chiese al Maestro se si potesse avere ragione e torto allo stesso momento. Il Maestro chiamò cinque ciechi e li fece portare vicino ad una bottiglia di Raffo, dopodiché chiese loro di toccarla e dire a cosa somigliasse.

INTRODUZIONE (Sempre parlando con decenza)

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In molti mi chiedono, spesso, di parlare del Maestro, di chi sia, quanti anni abbia, da dove venga. A tutti coloro rispondo come Lui rispose a me quando, tanti anni fa, gli feci le stesse domande: "Perché ti interessi della forma della bottiglia, se poi quello che importa è se al suo interno è contenuta la Raffo? Queste brevi note non vogliono essere altro che un parziale riflesso della Sua immensa saggezza, fornite a coloro che vogliono dissetarsi alla fonte della Sua incommensurabile conoscenza.

VO’ PAGGHIE PE CIENTE CAVADDE!

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Ero completamente assorbito dalla osservazione della galassia di Andromeda col mio telescopio (che ogni tanto accidentalmente si spostava in corrispondenza delle finestre della mia procace e disinibita dirimpettaia) quando un leggero colpo di tosse rivelò la presenza di Archibald, il segaligno maggiordomo che, ottenuta la mia attenzione, mi mostrò la parcella del decoratore che aveva realizzato alcuni trompe-l’oeil nell’ala sud-sud-ovest della mia angusta dimora. Pur apprezzando il risultato della sua estrinsecazione artistica, l’importo fatturato mi sembrò ingiustificatamente elevato e non potei trattenermi dall’esclamare: “ MOCCA A JIDDE, VO’ PAGGHIE PE CIENTE CAVADDE! ” ( Accidenti a lui, vuole paglia per cento cavalli !).

INTRODUZIONE (parlando con decenza...)

Prima di tutto, è bene confessare una cosa: questa modesta raccolta di scritti vuole consentire anche a chi non abbia pratica col dialetto e la filosofia di vita tarantina di conoscere un po’ della nostra storia e cultura, ma solo apparentemente. In realtà è la superba risposta di un popolo conscio del proprio luminoso passato e del suo oscuro presente, un colpo di coda dell’orgoglio dei figli di Taras che si stringono a coorte esclamando: "Chi non ci vuole non ci merita!". Ebbene si, non badate al corso T.A.R.A.S. quello è fumo negli occhi; la verità è nelle altre pagine, in quelle righe che ospitano espressioni che solo chi ha respirato i metallici fumi dell’Italsider può comprendere, in quei modi di dire cinici e rassegnati che da sempre sferzano e consolano le rughe segnate dalla salsedine di chi dal mare trae gioia e dolore, in quelle frasi usate e abusate da tutti coloro che di fronte ad un forestiero, foss’anche il Papa, si presenterebbero con un "Nuje? Ce ne vuli