Zump’u citrule e vè ngule all’ortolane (dopo le notizie del "cetriolo killer" teutonico)
Discutevo con il mio interior designer su quale tipo di illuminazione fosse più appropriata per ottenere la migliore resa cromatica della tela del Tiepolo che avevo acquistato per adornare l’ingresso al quarto piano della zona notte riservata agli ospiti che spesso mi onorano della loro presenza nel mio modesto abituro quando venni raggiunto dal sopraffino Archibald che, senza por tempo in mezzo, provvide a comunicarmi che l’avvocato Pandetta desiderava urgentemente incontrarmi e mi attendeva nel mio studio privato.
Preceduto dal mio lesto maggiordomo raggiunsi il legale che mi informò che un mio vecchio beneficiato, a cui avevo concesso in enfiteusi una piantagione di fichi d’India al fine di permettergli di risollevarsi dalla condizione di abbrutimento fisico e morale in cui era sprofondato grazie alla infallibile medicina del lavoro manuale, evidentemente sobillato da alcuni cattivi consiglieri affermava di essere divenuto oramai proprietario per usucapione dell’appezzamento agricolo da lui condotto e ne rivendicava quindi la piena ed assoluta disponibilità.
Appreso questo ulteriore esempio della umana ingratitudine, istintivamente esclamai “Zump’u citrule e vè n’gule all’ortolane!” (Salta il cetriolo e sodomizza l’ortolano) e subito l’avv. Pandetta mi corresse ricordandomi che il fondo era coltivato a fichi d’India e non a cucurbitacee, dimostrando ipso-facto di ignorare l’espressione da me usata.
Oramai dedito alla istruzione dell’inclito e del volgo in merito alla precisa esegesi dei detti creati dalla arguzia e dall’esperienza dei nostri avi, passai senza indugio alla spiegazione del motto da me citato, ricorrendo all’uopo alla consultazione del ponderoso trattato “L’eudemonismo come componente significativa nella visione epicurea dell’esistenza nella accezione propria del tarentino medio” scritto dal noto filosofo greco Kascittone da Corinto (Corinto, 972 d.c. – Linciaggio da parte di alcuni ultras perché sospettato di avere indicato alle autorità di vigilanza alcuni ingressi abusivi allo stadio comunale di Tebe, 1.045 d.c.).
Nell’opera citata il Kascittone confuta la tesi secondo la quale la condizione di vita ideale è quella dell’operoso “homo faber”, che trae sostentamento materiale e soddisfazione morale dal risultato del proprio lavoro e contrappone a questa la filosofia esistenziale conosciuta sulle rive del mar piccolo, tale per cui l’uomo è tanto più vicino alla felicità quanto più si dedica alla inattività assoluta in senso costruttivo ed all’impiego in senso ludico del proprio tempo, discutendo di calcio e belle donne con i suoi sodali o impegnandosi in estenuanti tenzoni di stoppa, “patrune-e-sotte”, livoria, spizzidde e quant’altro lo porti ad allontanarsi dalla punitiva condizione catt-cristiana che lo vuole condannato a guadagnare il pane col sudore della propria fronte.
E ad ulteriore riprova di quanto affermato, il Kascittone cita proprio il motto in esame, dimostrando come il lavoro, esemplificato dalla figura del contadino-ortolano che intride le zolle del terreno con sudore della propria fatica e che tanto si adopera perché i suoi ortaggi siano preservati dai parassiti e dagli agenti atmosferici nocivi in modo da crescere sani e belli, sia poi offeso ed umiliato nella propria essenza umana dal prodotto dei suoi sforzi che gli si ribella contro, penetrandolo da tergo e violando la sua persona. Per il filosofo questa è la prova che la Natura aborre il lavoro imposto, che quanto ci è necessario per il sostentamento è liberamente acquisibile intorno a noi senza sforzo e che la brama di avere di più, sempre di più, genera invidia, grettezza d’animo, egoismo e, come risultato ultimo, infelicità.
Attualmente ai più sfugge il pregnante significato morale del motto e questo viene usato soprattutto per commentare situazioni di ingratitudine e/o irriconoscenza che si risolvono appunto in un danno per il benefattore perpetrato dal beneficato.
In tale ambito questo verrà usato dall’automobilista che si vede richiedere un risarcimento danni da parte dell’autostoppista a cui ha concesso un passaggio e che si è slogato una caviglia scendendo dalla sua autovettura come dal volontario animalista che cura un cane randagio e viene da questi azzannato.
Vale al proposito ricordare alcune sottili differenze con altri detti apparentemente simili nel significato e che comprendono il “culo” come già citata figura retorica piuttosto che come componente anatomica “tout-court”.
Nel “Zump’u citrulle e vè n’gule all’ortolane” abbiamo quindi Tizio che fa del bene a Caio e Caio che, ingrato, fa del male a Tizio, spesso usando proprio gli stessi mezzi con cui era stato beneficato.
Vi è poi il già esaminato “A piscia bagna u liette e u cule abbuske”, in cui Tizio fa del male a Caio e Caio punisce Sempronio, vittima incolpevole delle altrui malefatte.
Quindi, mentre nel primo caso gli attori dell’evento sono due e sono legati tra loro da un rapporto di dipendenza “causa-effetto”, poiché non esisterebbe il beneficiato se non esistesse il benefattore, nel secondo i protagonisti sono tre, legati da rapporti di coppia che escludono il terzo soggetto, spesso ignaro di quanto unisce gli altri due, come nelle classiche commedie di Faydau.
Con l’occasione ancora ricordiamo “Amici, amici, ma a nu parme da u cule”, in cui Caio ammonisce sempronio che a fondamento di una amicizia non può non esserci un reciproco rispetto ovvero la assoluta non ingerenza nelle altrui faccende personali, e terminiamo con “Mpara u cule quanta stè sule, ca quanta stè accompagnate stè buene mparate” in cui Caio ammonisce Tizio di autolimitare i suoi eccessi al fine di evitare pubbliche reprimende.
Preceduto dal mio lesto maggiordomo raggiunsi il legale che mi informò che un mio vecchio beneficiato, a cui avevo concesso in enfiteusi una piantagione di fichi d’India al fine di permettergli di risollevarsi dalla condizione di abbrutimento fisico e morale in cui era sprofondato grazie alla infallibile medicina del lavoro manuale, evidentemente sobillato da alcuni cattivi consiglieri affermava di essere divenuto oramai proprietario per usucapione dell’appezzamento agricolo da lui condotto e ne rivendicava quindi la piena ed assoluta disponibilità.
Appreso questo ulteriore esempio della umana ingratitudine, istintivamente esclamai “Zump’u citrule e vè n’gule all’ortolane!” (Salta il cetriolo e sodomizza l’ortolano) e subito l’avv. Pandetta mi corresse ricordandomi che il fondo era coltivato a fichi d’India e non a cucurbitacee, dimostrando ipso-facto di ignorare l’espressione da me usata.
Oramai dedito alla istruzione dell’inclito e del volgo in merito alla precisa esegesi dei detti creati dalla arguzia e dall’esperienza dei nostri avi, passai senza indugio alla spiegazione del motto da me citato, ricorrendo all’uopo alla consultazione del ponderoso trattato “L’eudemonismo come componente significativa nella visione epicurea dell’esistenza nella accezione propria del tarentino medio” scritto dal noto filosofo greco Kascittone da Corinto (Corinto, 972 d.c. – Linciaggio da parte di alcuni ultras perché sospettato di avere indicato alle autorità di vigilanza alcuni ingressi abusivi allo stadio comunale di Tebe, 1.045 d.c.).
Nell’opera citata il Kascittone confuta la tesi secondo la quale la condizione di vita ideale è quella dell’operoso “homo faber”, che trae sostentamento materiale e soddisfazione morale dal risultato del proprio lavoro e contrappone a questa la filosofia esistenziale conosciuta sulle rive del mar piccolo, tale per cui l’uomo è tanto più vicino alla felicità quanto più si dedica alla inattività assoluta in senso costruttivo ed all’impiego in senso ludico del proprio tempo, discutendo di calcio e belle donne con i suoi sodali o impegnandosi in estenuanti tenzoni di stoppa, “patrune-e-sotte”, livoria, spizzidde e quant’altro lo porti ad allontanarsi dalla punitiva condizione catt-cristiana che lo vuole condannato a guadagnare il pane col sudore della propria fronte.
E ad ulteriore riprova di quanto affermato, il Kascittone cita proprio il motto in esame, dimostrando come il lavoro, esemplificato dalla figura del contadino-ortolano che intride le zolle del terreno con sudore della propria fatica e che tanto si adopera perché i suoi ortaggi siano preservati dai parassiti e dagli agenti atmosferici nocivi in modo da crescere sani e belli, sia poi offeso ed umiliato nella propria essenza umana dal prodotto dei suoi sforzi che gli si ribella contro, penetrandolo da tergo e violando la sua persona. Per il filosofo questa è la prova che la Natura aborre il lavoro imposto, che quanto ci è necessario per il sostentamento è liberamente acquisibile intorno a noi senza sforzo e che la brama di avere di più, sempre di più, genera invidia, grettezza d’animo, egoismo e, come risultato ultimo, infelicità.
Attualmente ai più sfugge il pregnante significato morale del motto e questo viene usato soprattutto per commentare situazioni di ingratitudine e/o irriconoscenza che si risolvono appunto in un danno per il benefattore perpetrato dal beneficato.
In tale ambito questo verrà usato dall’automobilista che si vede richiedere un risarcimento danni da parte dell’autostoppista a cui ha concesso un passaggio e che si è slogato una caviglia scendendo dalla sua autovettura come dal volontario animalista che cura un cane randagio e viene da questi azzannato.
Vale al proposito ricordare alcune sottili differenze con altri detti apparentemente simili nel significato e che comprendono il “culo” come già citata figura retorica piuttosto che come componente anatomica “tout-court”.
Nel “Zump’u citrulle e vè n’gule all’ortolane” abbiamo quindi Tizio che fa del bene a Caio e Caio che, ingrato, fa del male a Tizio, spesso usando proprio gli stessi mezzi con cui era stato beneficato.
Vi è poi il già esaminato “A piscia bagna u liette e u cule abbuske”, in cui Tizio fa del male a Caio e Caio punisce Sempronio, vittima incolpevole delle altrui malefatte.
Quindi, mentre nel primo caso gli attori dell’evento sono due e sono legati tra loro da un rapporto di dipendenza “causa-effetto”, poiché non esisterebbe il beneficiato se non esistesse il benefattore, nel secondo i protagonisti sono tre, legati da rapporti di coppia che escludono il terzo soggetto, spesso ignaro di quanto unisce gli altri due, come nelle classiche commedie di Faydau.
Con l’occasione ancora ricordiamo “Amici, amici, ma a nu parme da u cule”, in cui Caio ammonisce sempronio che a fondamento di una amicizia non può non esserci un reciproco rispetto ovvero la assoluta non ingerenza nelle altrui faccende personali, e terminiamo con “Mpara u cule quanta stè sule, ca quanta stè accompagnate stè buene mparate” in cui Caio ammonisce Tizio di autolimitare i suoi eccessi al fine di evitare pubbliche reprimende.
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