Vist’ cippone ca pare barone
Durante l’annuale riunione conviviale esclusivamente riservata agli insigniti del “Knight Commander of the Order of the British Empire” a cui mi onoravo di partecipare, discutevo con il mio vicino di tavola affermando che buona parte del successo di alcuni personaggi oggi considerati dei sex symbol è da attribuire ad una attenta strategia di marketing promozionale oltre che ai miracoli degli addetti alla sala trucco e sartoria, asserzione provata dal fatto che molti di loro dichiarano che prima di essere famosi riscuotevano successi ed apprezzamenti addirittura inferiori alla media.
Il mio commensale si dichiarò affatto d’accordo con me, poiché a suo dire l’abito non fa il monaco e quindi detti personaggi incarnano comunque un valore estetico assolutamente notevole, quasi ininfluentemente accresciuto da abiti, trucco, acconciature, comportamento studiati ad hoc.
Al motto del mio interlocutore ebbi buon gioco nell’opporre “VISTE CIPPONE CA PARE BARONE” (Vesti un grosso ramo e sembrerà un barone) ed il suo sguardo attonito mi ricordò quello del mio devoto Archibald, tanto che mi risolsi a chiarirgli il concetto come avrei fatto col mio imperscrutabile maggiordomo, ricorrendo alla citazione di “Bell’ pare, com’a nu cassonette dell’AMIU - Analisi e rimedi dei più diffusi errori nello abbigliamento moderno” manuale compilato dal fine esteta turco Abdullah Mothafàzz Narùfl (Balikesir, 1874 - Invasione di pista durante il “Gran Galà degli Elefanti Incazzusi” presso il circo di Moira Fuschi, 1956).
Il Motfàz Narùfl afferma il primato dell’apparenza sull’essenza, citando ad esempio il notevole numero di contratti stipulato da addette alle vendite di prodotti destinati ad un pubblico maschile abbigliate in modo succinto contro quello assai più scarso registrato da colleghe magari più capaci e preparate ma con minore appeal.
Per meglio chiarire questo concetto il Motfàz Narùfl riporta il detto rivelandone l’origine che è a metà, come spesso accade, tra verità e leggenda.
Si racconta infatti che un signorotto locale era costretto a letto a causa di un fastidioso attacco influenzale quando giunse il giorno della annuale processione che portava per le vie del paese la statua del Santo Patrono, seguita dalla banda musicale, dal vescovo, dal parroco e da tutti i devoti abitanti.
La tradizione voleva che all’atto del transito del corteo sotto le finestre del palazzo, il nobile occupante si affacciasse per ricevere la benedizione religiosa e mostrare la sua benevolenza al popolo ma il suo stato febbrile e debilitato non permetteva assolutamente la sua pur breve comparsa.
Che fare? Lasciar chiusa la finestra? Non se ne parlava neanche, clero e popolo non avrebbero mai perdonato tale affronto. Rendere pubblica la malattia? Neppure a pensarlo, certe notizie dovevano essere custodite col massimo riserbo. Sostituire l’augusto malato? Si, ma con chi? Nessuno aveva il coraggio di indossare gli abiti signorili, un timore reverenziale bloccava tutti gli astanti e nessuno si sentiva di compiere un atto di tale arroganza.
Intanto il sacro corteo si avvicinava ed urgeva trovare una soluzione, quando ad uno dei domestici venne un lampo di genio, corse in giardino, tagliò rapidamente un grosso tronco di vite (“cippone”, in dialetto), lo abbigliò con il vestito più ricco e prezioso che trovò nell’armadio, fissò sulla sommità un ampio cappello e lo presentò alla finestra appena in tempo.
Il popolo salutava ed il domestico muoveva il grosso ramo come se il nobile che impersonava stesse salutando con la mano; la distanza impedì alla processione di accorgersi della sostituzione e se vi fu qualche sospetto fu subito taciuto.
Aldilà del reale accadimento dell’episodio citato – che peraltro ricorda molto la “mano meccanica” utilizzata da Sua Maestà Elisabetta II di Inghilterra per salutare il popolo festante durante i suoi cortei in automobile - , l’espressione afferma che anche un ramo, se opportunamente abbigliato, può sembrare un nobile e viene usata per sottolineare l’importanza dell’aspetto esteriore nella formulazione dei giudizi di chi ci sta di fronte, anche se corre l’obbligo di dire che l’espressione viene a volte usata anche con valenza negativa a sottolineare gli inutili sforzi di qualcuno che vuole atteggiarsi a “barone”, tradendo, nonostante il suo look ricercato, la sua vera natura di “cippone”.
Un buon taglio di capelli, una acconciatura appropriata, un abito elegante ed un minimo di “savoir faire” consentono a volte di millantare l’appartenenza a ceti sociali ben più elevati dell’effettivo.
Tecniche di “captatio benevolentiae” oggi codificate ed esaminate negli studi di sociologia e nei manuali di marketing, ma già da secoli conosciute a Taranto, che ancora una volta dimostra di aver precorso i tempi.
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