Farsi a fezza

Mentre sorvegliava che tutti i partecipanti al cocktail party che si svolgeva nel salone degli arazzi della mia modesta residenza primaverile fossero serviti a dovere, Archibald, il mio fedele maggiordomo che si fa un punto di onore nel offrirmi i suoi preziosi servigi, veniva chiamato da uno degli invitati che richiedeva una quantità affatto limitata di bevande alcoliche di varia natura e qualità al fine esclusivo di <<farsi a fezza>>.

Stante la sua provenienza dalla terra di Albione, al mio sottoposto sfuggiva il significato della frase e mi chiedeva come mai vi fosse nel suo interlocutore la volontà di assumere il sembiante del noto copricapo arabo di forma tronco-circolare indossato anche dagli appartenenti alla gloriosa arma dei bersaglieri.

Chiaritogli il qui pro quo ho ritenuto non inutile dare una più vasta eco alla mia spiegazione al fine di contribuire ad evitare in futuro il ripetersi di simili equivoci.

Bisogna innanzitutto sottolineare che col termine “fezza” si indica quel particolato di varia consistenza e granulometria che spesso alberga nelle bottiglie di vino di annate lontane e che a volte l’incauto mescitore versa nei bicchieri insieme al nettare di Bacco.

Se è acclarato il significato del termine principale, varie sono state nel tempo le interpretazioni filologiche che si sono volute dare dell’espressione; l’economista greco Kostas Propioassai (Atene, 1895 - Alassio, 1969), premio Nobel per l’economia nel 1958 per aver teorizzato un sistema capitalistico di distribuzione di beni e servizi di tipo verticalizzato piramidale che vedeva il vertice cedente avvantaggiato rispetto alla base ricevente, conosciuto ai più con il concetto finale di “A’cci sparte ave a megghia parte”, nella sua ponderosa opera di economia domestica <<Mangia ca ste’ pajate>> in cui fornisce una serie di originali ricette per riutilizzare gli avanzi di cucina (dal gateau di lische di cefalo al frappè di gusci di cozze) dedica un capitolo al recupero della fezza e con l’occasione ricorda il detto in esame proponendo la seguente spiegazione: <<Con l’espressione “farsi (l)a fezza” il popolo di basso ceto, abituale frequentatore della cantina di Sumarano, intende aver toccato il fondo, essere ridotto ai minimi termini, raschiare il fondo del barile, tanto che non avendo più vino, il malcapitato arriverà a “farsi la fezza”, ovvero a ingurgitare anche la posa delle bottiglie o delle botti pur di trangugiare qualcosa che sia pure lontanamente abbia a che fare con l’inebriante bevanda>>.



Severo oppositore del Propioassai fu l’ucraino Vassjli Kulapjertov (Minsk, 1901 - Torneo di manue zozzò contro la rappresentativa giapponese di vecchie glorie di sumo, 1943) che confutò sia la teoria che valse il Nobel all’avversario con uno sferzante libello intitolato <<Na cape mantene ciente cape e ciente cape no’ mantenen’ na cape>> in cui asserisce la impossibilità della inversione del flusso distributivo individuando addirittura il soggetto al vertice come penalizzato dall’atto stesso che lo vede protagonista, sia l’interpretazione dell’espressione di cui trattasi; il particolare il Kulapjertov sosteneva che questa, lungi dal rappresentare l’ultima Thule del bevitore incallito, esplicitava invece il suo stato di abbattimento psico-fisico, quindi così come la fezza tocca il fondo DEL vino, chi si “fa a fezza” tocca metaforicamente il fondo COL vino, diminuendo in maniera esponenziale sia le sue capacità fisico-intellettive che quelle cinestetiche, assumendo come la fezza una postura statica suscettibile di variazione solo a seguito di stimoli e/o ausili esterni e di terzi.

Tale condizione di abbrutimento inoltre vale a condannare il soggetto alla pubblica reprimenda ed all’esilio sociale, così come la fezza che viene disprezzata e allontanata dal vino di cui è ospite indesiderata.

Commenti

Post popolari in questo blog

Vist’ cippone ca pare barone

Sampdoria

Zump’u citrule e vè ngule all’ortolane (dopo le notizie del "cetriolo killer" teutonico)