TENE CHIU’ CULE CA SENTIMENTE
In occasione della multimiliardaria vincita al “Super-Enalotto” che ha portato Grottaglie agli onori della cronaca, ho riascoltato una delle espressioni che più spesso ricorrono nel vernacolo tarantino, ovvero: "TENE CHIU’ CULE CA SENTIMENTE” (ha più fortuna che intelligenza).
La frase commenta con una punta di invidia la fortuna sfacciata di chi riesce nel suo intento nonostante delle doti intellettive che rasentano la sufficienza.
In particolare capita si sentire l’espressione in occasione di vincite a tombola, lotto o qualsivoglia gioco d’azzardo, ritrovamento fortuito di oggetti e/o effetti personali di valore (collane, orologi, bracciali, ecc.), assunzioni a tempo indeterminato nei ranghi della Pubblica Amministrazione o dell’Arsenale.
Il filologo cipriota Alì Shafackalà (Beirut, 1901 - Asfissia durante la gara di rutti e pirdi alla discesa del Vasto, 1962), massimo esponente della preparazione del cuenzo per la pesca del lutrino nel Mar Rosso e libero docente di “Psicopatologia della mano morta sul bus di linea n° 14” presso la Università degli studi di Tubinga - filiale distaccata presso il capolinea AMAT a Gandoli, così chiosava il detto citato:
“In esso è assai presente la convinzione che il fato segua a volte percorsi imprevedibili, avulsi dalla logica meritocratica del singolo, distribuendo favori e prebende in modo sproporzionato rispetto alle capacità del ricevente. In evidente contrasto con la teoria americana del “self made man”, ispirata all’alfieriano “volli, sempre volli, fortissimamente volli” che sembra garantire sicure riuscite a fronte di diuturno e costante impegno, il tarantino nota come a volte la dea bendata riversi la sua cornucopia su chi meno se lo merita. Il tarantino è notoriamente attento alla sua salute fisica e sa bene che un eccesso di ira o disappunto si ripercuote psicosomaticamente sul proprio corpo, principalmente sull’apparato gastrointestinale ed evita quindi di adontarsi per la benigna sorte immeritatamente riservata a terzi a dispetto dei propri infruttuosi sforzi eliminando il confronto; per fare ciò, non potendo impedire la altrui fortuna, limita al massimo le proprie fatiche. Risulta quindi essere in errore chi giudichi il popolo tarantino come nullafacente e scansafatiche; esso ha invece raggiunto un superiore stato di coscienza, che ricorda da vicino il “satori” dei buddisti, per cui i tarantini aborrono l’impegno terreno, ammaestrati dai versi di apertura dell’Ecclesiaste “vanità delle vanità, tutto è vanità” e fuggono le misere e grette invidie quotidiane, consci di un oscuro disegno divino che si riassume nel detto “U Signore sape a ccì a da fa a grazia” (Il Signore sa a chi fare la grazia), motto spesso usato in risposta a quello oggetto della presente nota”.
Più prosaica è invece l’interpretazione che ne da il dotto Sigfrid Zpuenzl (Cortina d’Ampezzo, 1912 - Indigestione di mitili crudi presso la rivendita ittica “U pesc’ d’ sord” - S. Vito, 1952), già membro della austera ”Accademia del Cefalo Orbo” e autore del caustico e orgoglioso libello “Ccè ne vulime de vuje - ovvero sulla superiorità del tarantino rispetto alle genti straniere” che alcuni vogliono considerare come il punto di partenza per i concetti di arianesimo e differenze razziali propalate poi dal nazionalsocialismo di hitleriana memoria.
Nella fattispecie, il Zpuenzl fa risalire l’origine del detto come commento al matrimonio di una ragazza assai prosperosa con un ricco possidente tanto vecchio quanto poco attraente.
Una donna di basso ceto che assisteva alla cerimonia, al fine di sottolineare quanto il sacro vincolo fosse stato contratto per motivi di interesse più che per un sentimento d’amore disinteressato, esclamò la frase in esame, volendo con ciò esprimere la convinzione che lo sposo nella scelta della consorte fosse stato guidato più dall’apprezzamento del notevole fondoschiena della nubenda che dalla consapevolezza che Cupido avesse fatto centro con i suoi dardi d’amore.
La frase commenta con una punta di invidia la fortuna sfacciata di chi riesce nel suo intento nonostante delle doti intellettive che rasentano la sufficienza.
In particolare capita si sentire l’espressione in occasione di vincite a tombola, lotto o qualsivoglia gioco d’azzardo, ritrovamento fortuito di oggetti e/o effetti personali di valore (collane, orologi, bracciali, ecc.), assunzioni a tempo indeterminato nei ranghi della Pubblica Amministrazione o dell’Arsenale.
Il filologo cipriota Alì Shafackalà (Beirut, 1901 - Asfissia durante la gara di rutti e pirdi alla discesa del Vasto, 1962), massimo esponente della preparazione del cuenzo per la pesca del lutrino nel Mar Rosso e libero docente di “Psicopatologia della mano morta sul bus di linea n° 14” presso la Università degli studi di Tubinga - filiale distaccata presso il capolinea AMAT a Gandoli, così chiosava il detto citato:
“In esso è assai presente la convinzione che il fato segua a volte percorsi imprevedibili, avulsi dalla logica meritocratica del singolo, distribuendo favori e prebende in modo sproporzionato rispetto alle capacità del ricevente. In evidente contrasto con la teoria americana del “self made man”, ispirata all’alfieriano “volli, sempre volli, fortissimamente volli” che sembra garantire sicure riuscite a fronte di diuturno e costante impegno, il tarantino nota come a volte la dea bendata riversi la sua cornucopia su chi meno se lo merita. Il tarantino è notoriamente attento alla sua salute fisica e sa bene che un eccesso di ira o disappunto si ripercuote psicosomaticamente sul proprio corpo, principalmente sull’apparato gastrointestinale ed evita quindi di adontarsi per la benigna sorte immeritatamente riservata a terzi a dispetto dei propri infruttuosi sforzi eliminando il confronto; per fare ciò, non potendo impedire la altrui fortuna, limita al massimo le proprie fatiche. Risulta quindi essere in errore chi giudichi il popolo tarantino come nullafacente e scansafatiche; esso ha invece raggiunto un superiore stato di coscienza, che ricorda da vicino il “satori” dei buddisti, per cui i tarantini aborrono l’impegno terreno, ammaestrati dai versi di apertura dell’Ecclesiaste “vanità delle vanità, tutto è vanità” e fuggono le misere e grette invidie quotidiane, consci di un oscuro disegno divino che si riassume nel detto “U Signore sape a ccì a da fa a grazia” (Il Signore sa a chi fare la grazia), motto spesso usato in risposta a quello oggetto della presente nota”.
Più prosaica è invece l’interpretazione che ne da il dotto Sigfrid Zpuenzl (Cortina d’Ampezzo, 1912 - Indigestione di mitili crudi presso la rivendita ittica “U pesc’ d’ sord” - S. Vito, 1952), già membro della austera ”Accademia del Cefalo Orbo” e autore del caustico e orgoglioso libello “Ccè ne vulime de vuje - ovvero sulla superiorità del tarantino rispetto alle genti straniere” che alcuni vogliono considerare come il punto di partenza per i concetti di arianesimo e differenze razziali propalate poi dal nazionalsocialismo di hitleriana memoria.
Nella fattispecie, il Zpuenzl fa risalire l’origine del detto come commento al matrimonio di una ragazza assai prosperosa con un ricco possidente tanto vecchio quanto poco attraente.
Una donna di basso ceto che assisteva alla cerimonia, al fine di sottolineare quanto il sacro vincolo fosse stato contratto per motivi di interesse più che per un sentimento d’amore disinteressato, esclamò la frase in esame, volendo con ciò esprimere la convinzione che lo sposo nella scelta della consorte fosse stato guidato più dall’apprezzamento del notevole fondoschiena della nubenda che dalla consapevolezza che Cupido avesse fatto centro con i suoi dardi d’amore.
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