CA CCE U CAZZE JE CA TE CAZZE

Volendo esporre sulla parete del mio fumoir “I girasoli” di Van Gogh, acquistato d’occasione presso un asta di beneficenza della mia parrocchia rionale, colpivo col martello l’indice che sosteneva il chiodo, procurandomi una vasta quanto dolorosa ecchimosi.
L’episodio mi ha richiamato alla mente l’espressione: "CA CCE’ U CAZZE JE CA TE CAZZE, U CAZZE JE CA A ‘DDA’ CUNTE!" (Il problema non è tanto nel fatto di essersi feriti quanto in quello di dover raccontare come è successo).
Per l’analisi del detto in questione ci viene in soccorrevole ausilio l’insigne accademico Johannes Kakamukatz (Frankfurth au Main, 1775 - esplosione della fabbrica clandestina di bombe da pesca al carburo presso il Mar Piccolo di Taranto, 1842), cavaliere emerito dell’ordine del gobbione al sugo e teorico dell’esercizio aerobico volto ad acquisire perizia e precisione nel drizzare coi glutei la naturale curvatura delle banane.

Il Kakamukatz, nella sua enciclopedica opera "Pass’a mme ca so’ veloce - teoria e pratica del cooperativismo proletario in una città del sud Italia" edito in Stoccarda nel 1821, sottolineava quanto nella società tarantina dell’epoca avessero grande considerazione sociale gli artigiani, che rappresentavano la oggettivizzazione dell’ “uomo faber” che tanto vale quanto sa fare.
Naturale corollario di quanto sopra è che ciascun artigiano, al fine di aumentare le sue quotazioni, volesse evidenziare al meglio la sua perizia e la qualità del suo lavoro.

Anni e anni di tecniche di marketing “client oriented” e di pubbliche relazioni e promozione aziendale potevano però essere vanificate da un infortunio sul lavoro, non tanto perché il danneggiamento fisico poteva lasciare una menomazione o una invalidità più o meno permanente, quanto perché l’aver subito un incidente indicava ai potenziali clienti la scarsa perizia nella propria attività.
Ecco quindi che il cruccio maggiore di un infortunato non era tanto sopportare il dolore o le conseguenze fisiche dell’incidente, quanto nasconderne le tracce oppure, ove questo non fosse possibile, inventare una valida scusa che non facesse supporre l’incidente sul lavoro.
Al giorno d’oggi l’espressione è usata anche come stizzito commento al fastidio di dover relazionare in sequenza tutti coloro che ci chiedono le cause e le modalità di un incidente occorsoci, rinnovando insopportabilmente la memoria dell’infausto evento
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