noblesse oblige


Ero sul green a diciotto buche ricavato in una piccola porzione del modesto parco della mia umile magione e stavo provando il mio nuovo iron n° 5 tentando di colpire con la pallina una bottiglia di Raffo distante circa una ventina di metri quando venni raggiunto dal perpendicolare Archibald, che mi annunciava una visita.
Era la petulante presidentessa del circolo monarchico “Reginella”, un club di anziane aristocratiche che avevano come “mission” non il ricordo di Maria Josè, ultima giovane regina di casa Savoia, ma la nostalgica venerazione dello scettro virile del di lei consorte, come esplicitato dal nome con cui è popolarmente conosciuto il policromo pesce nostrano che al sodalizio dà il nome.
Raggiunsi la attempata visitatrice nel salotto e per una buona mezz’ora sorseggiai in sua compagnia l’ottimo tè servito da Archie, squisita bevanda che mi aiutò a sopportarne l’interminabile chiacchiericcio, che si concluse infine con la richiesta di una nuova e sostanziosa donazione a favore del loro sodalizio, in memoria del mio bisavolo, un generale di cavalleria che, a detta della visitatrice, non era secondo a nessuno nella monta di giumente a due e quattro zampe.


Firmato e consegnato l’assegno, scortai la rugosa ospite sino alla porta e quando questa si chiuse alle sue spalle, non potetti trattenere un sospiro ed una espressione che esprimevano tutto il mio sollievo per la fine dello strazio patito.
Archibald era ancora sulla soglia e, nel vedere il mio volto atteggiato ad una smorfia di fastidio e serenità insieme, mi rivolse la sua solita, muta domanda.
Commosso del suo interessamento, risposi con una pacca sulle sue magre spalle dicendo "Eeeeh, noblesse oblige… e le peperusse ushkene!" (Noblesse oblige…ed i peperoncino rossi sono piccanti) ma il vecchio Archie fraintese la mia espressione e la scambiò per un appunto alla cucina, percui si affrettò a scusarsi promettendo che avrebbe personalmente supervisionato l’impiego di spezie di qualsivoglia tipo e genere nella preparazione del mio frugale desinare.

Tranquillizzai il mio pallido coadiutore e mi risolsi immantinentemente a chiarire il significato della espressione da me citata, ricorrendo al saggio “Cosmogonia universale e gastronomia popolare – macrocosmo e microcosmo a confronto” del teologo svizzero Hans Gottfried GroBsonneuntergang (Zofingen, 1756 – Travolto da ruspa cingolata in occasione della decennale pulizia delle spiagge della Marina di Torricella durante una sabbiatura integrale, 1802), arcipriore della Confraternita di S. Egidio.

Nell’opera citata il GroBsonneuntergang si interroga sulla esistenza o meno del libero arbitrio umano contrapposto alla onniscienza ed onnipotenza divina, egli infine afferma che il libero arbitrio esiste e che l’Uomo non è un burattino ai comandi di un Essere Superiore ed è libero di compiere le proprie scelte di vita, assunto confermato dal fatto che l’Uomo stesso può autonomamente e liberamente scegliere se comprendere o meno la zucchina nella preparazione di una teglia di “riso, patate e cozze”.
Nell’esplorare filosoficamente la condizione umana attraverso le pratiche di cucina, il GroBsonneuntergang cita anche l’espressione da me impiegata, fornendone una esauriente spiegazione che provvidi a comunicare al canuto Archie.
Il teologo svizzero afferma in sintesi che un animo nobile deve essere pronto  ad affrontare nella sua vita anche imprese che già in partenza sa che comporteranno dolore e sofferenza; dolore e sofferenza che tempreranno il suo animo e che, come in un processo di progressiva trasmutazione alchemica, lo renderanno sempre più puro ed elevato rispetto alla volgare massa che lo circonda.
Questo Uomo non può fare altrimenti, la sua nobiltà d’animo lo guida in un obbligo virtuoso, rende al lui naturale un comportamento che per altri è inconcepibile, naturale come è naturalmente piccante un peperone, che noi gustiamo pur consci dei pirici effetti collaterali che questa degustazione comporta.
Questo Uomo tende non già ad essere Dio ma a migliorare la sua condizione umana superandone il limite, è il mito archetipo rappresentato da Prometeo che ruba il fuoco al carro del sole per darlo agli uomini e scacciare l’oscurità fisica e morale che ottunde i loro cuori, è l’Icaro che costruisce le ali per abbandonare la terra, prigione senza sbarre a cui sono destinati i suoi simili, è il Gilgamesh babilonese che lotta per conquistare l’immortalità e negare la fine a cui tutti gli uomini sono condannati. Questi eroi, e tanti altri come loro, sono consci dell’improba missione che dovranno affrontare, sanno che hanno pochissime possibilità di riuscirci, hanno consapevolezza delle durissime prove che li attendono eppure sono spinti dal sapere che, come scrisse il Sommo Poeta, “fatti non fummo per viver come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza” ed affrontano il loro destino a testa alta.
Oggi come ieri, un pugno di nobili uomini affronta impavido la prova suprema di fronte ad un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino; essi sanno che il loro apparato gastro-intestinale li implorerà di smettere, le loro papille gustative ne usciranno duramente provate, pure non si sottraggono ed affrontano l’impresa col sorriso sulle labbra, un sorriso che vale più di mille parole.
L’espressione viene allora usata quando l’Uomo lancia il suo guanto di sfida al Fato, quando un Pietro Micca si sacrifica per salvare la sua città dall’invasione straniera, quando i trecento giovani e forti espongono i loro petti al piombo nemico, quando uno studente consegna una pagella con valutazioni da schedina di totocalcio al burbero e manesco genitore, quando un distratto ma corretto automobilista lascia il proprio biglietto da visita sotto il tergicristallo dell’auto incustodita che ha urtato uscendo dal parcheggio.
E’ appena il caso di sottolineare ancora una volta, come fatto in passato, che questa di cui parliamo è nobiltà d’animo indipendente dal lignaggio, non certo l’aristocrazia che discende dall’appartenere ad una casata piuttosto che ad un’altra, a volte il sangue non è blu come dovrebbe e per fortuna dipende solo da noi essere l’Ubermensher di cui parlava Nietzsche quando venne scambiato per il precursore del nazionalsocialismo tedesco.

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