je acchiate u patrune?
Mi erano giunte voci che davano per certa la messa in
vendita del colosso cinematografico americano della Metro Goldwin Mayer ed
avevo così invitato ad una cena informale qualche decina di amici e conoscenti
che reputavo potessero essere interessati all’affare, per discutere della
possibilità di rilevare il pacchetto di maggioranza della società che, pur non
possedendo in magazzino capitali culturali come l’opera omnia di Mario
Carotenuto o le performance poliziesche di Maurizio Merli e Franco Gasparri,
offriva comunque la possibilità di poter arricchire con pellicole di indubbio
interesse la mia cineteca personale ubicata al quarto livello sotterraneo della
modesta dimora dove conduco la mia quotidianità lontano dai clamori del mondo.
Per l’occasione avevo deciso di allietare lo spirito ed il
corpo dell’allegro convivio con una cenetta senza pretese ed avevo chiesto
all’incommensurabile Archibald di procurarmi un po’ di tartufo d’Alba per
insaporire il risotto ed altri manicaretti che mi accingevo a preparare.
Il fusiforme britanno tornò al mio cospetto dopo qualche
minuto, recando seco un paio di chili scarsi dell’odoroso tubero, una quantità
che giudicavo assolutamente insufficiente per le mie necessità, tanto che
esclamai contrariato: “E ce ‘cchiate, u patrune?” (E che hai trovato, il
padrone?).
Ancora una volta non considerai la scarsa dimistichezza con il dialetto tarantino del mio algido collaboratore che, udita la mia espressione, scattò come se fosse stato colpito da una scudisciata in volto e, rizzate le spalle e gonfiato il petto, mi fece presente con tono deciso e tagliente che proveniva da una terra che con la “Magna charta libertatum” firmata da Giovanni Senza Terra nel 1215 introdusse importanti diritti individuali e concesse ad ogni cittadino britannico l’orgoglioso primato di non essere giammai schiavo. Dopo la lezione di storia, ad abundantiam, Archibald mi fece quindi presente che considerava il suo operare quotidiano una missione volta al miglioramento eudemonico dell’armonia universale e che mai, in tutta la sua onorata carriera, si era sentito un servo sottoposto ad un qualsivoglia padrone.
Mi fu subito chiaro l’equivoco e, volendo chiarire il
malinteso, senza por tempo in mezzo affidai la preparazione della cena al
personale di cucina pregando Archie di seguirmi in biblioteca.
Raggiunsi la sezione “Filosofia politica e storia sociale”
e dopo aver scorso qualche titolo finalmente trovai il saggio “Attacca u
ciuccie addò vò u patrune – Per una liberazione del proletariato dal basto del
capitalismo” redatto con veemenza dalla intellettuale trotzkista polacca
Ludmilla Kuanthapizzha Khawulewa (Danzica, 1922 – Elettrocuzione seguita al
tentativo di esproprio proletario degli addobbi luminosi predisposti in Via
D’Aquino dalla Amministrazione Comunale di Taranto, 1985) che offriva una
disanima del detto confacente alle mie necessità didattiche.
Nell’opera in oggetto la Kuanthapizzha
Khawulewa ammette di non
poter indicare con certezza l’origine della espressione ma, in base al suo
passato militante, ne fornisce delle spiegazioni assai convincenti, fondate sul
rapporto conflittuale tra il possidente capitalista e la plebe proletaria. Una
prima ipotesi si rifà alla proverbiale renitenza del ricco “padrone” a cedere
un qualsivoglia bene ai propri sottoposti, anche se detta cessione è
finalizzata alla realizzazione di un servizio e/o al conseguimento di un
vantaggio da parte del possidente stesso. Dall’avaro di Moliere alla maschera
di Pantalone, dal Paperon’ de Paperoni disneyano al mercante di Venezia
immortalato dal grande bardo, tanti sono gli esempi di gretti personaggi che
sospettano indebite appropriazioni da parte dei loro incaricati e che quindi
pretendono che il cuoco cucini senza ingredienti, che l’auto viaggi senza
benzina, che nel frigo non vi sia la
Raffo.
Segue un’altra e più avventurosa
ipotesi in cui i due attori (l’ipotetico padrone ed il soggetto del commento)
non sono legati da alcun vincolo di collaborazione e/o dipendenza ma
rappresentano l’uno il titolare e l’altro il pretendente alla proprietà di un
bene materiale mobile, oggetto di una transizione condannata dall’art 624 del
Codice Penale e comunemente individuata con il termine “furto”.
Capita spesso che in periodi di vendemmia ignoti si
introducano in altrui latifondi ed inizino ad operare al fine di appropriarsi
della maggior parte possibile del raccolto disponibile, operazione a volte
interrotta dall’improvviso arrivo del legittimo proprietario che costringe i
primi ad allontanarsi con un bottino assai più scarso di quello previsto.
Chiedere però a qualcuno se “ha trovato il padrone” non
vuole però né indicarlo come un servo sottoposto alle tirchierie di un padrone
bilioso e né tantomento vuole ipotizzare una provenienza men che lecita del
bene scarsamente addotto; infatti il padrone di cui si stigmatizza l’avarizia è
il destinatario stesso del commento, in una ennesima applicazione del “modus
operandi” che porta il tarantino a non esprimere mai direttamente il proprio
disappunto, affidandolo invece ad antifrasi, allusioni o iperboli retoriche.
Giusto per fare un paio di esempi, la gentildonna tarantina
userà l’espressione in esame per sottolineare gli scarsi carati dell’anello di
fidanzamento ricevuto dallo spasimante, così come, pronunciato con
inconfondibile savoir faire da un titolare della “Raffo’s fidelity card”,
esprimerà al mescitore del dorato nettare la pretenziosa attesa di una maggiore
quantità di birra nel proprio bicchiere.
Come ideologico contrappunto della avarizia padronale la Kuanthapizzha
Khawulewa riporta una serie
di esempi di prodigalità offerti dal popolino e dalla bassa borghesia
commerciale, riuniti dai termini “A bbona mesura” (la buona misura) o “A'
ghicatora” (la piegatura, l’inclinazione) che risultano essere, in questa
particolare occasione sostanzialmente sinonimi tra loro.
Stante la discutibile precisione
degli strumenti di misura e valutazione del peso (bilance e stadere) e delle
quantità delle merci, capitava spesso che l’acquirente esprimesse il sospetto
che al prezzo pagato non corrispondesse l’esatta quantità fornita. A fronte di
tale contestazione, e spesso per prevenirla più che per confutarla, capitava
che, una volta misurata la fornitura, il venditore aggiungesse, “motu proprio”,
una ulteriore quantità compresa nel prezzo, evidenziando il magnanimo gesto con
frasi tipo “E quiste pe bbona mesura!”.
La quantità aggiunta era
ovviamente lasciata alla esclusiva discrezione del cedente ed era rapportata
alla quantità ed alla tipologia della merce ceduta; spaziando quindi da una
mela o un pomodoro inserite in un sacchetto già pesato ad una manata di
alicette o gamberi aggiunte nel cartoccio prima di chiuderlo.
Da uno sconto in natura la cosa ha assunto nel tempo un
carattere quasi obbligatorio e capita spesso che “a bbona
mesura” venga espressamente chiesta e pretesa dalla massaia addusa a trattare
ogni e qualsiasi acquisto effettuato presso
i banchetti del mercato rionale.
Una parentesi specifica merita “a
ghicatora” che si riferisce specificatamente a liquidi quasi sempre di natura
alimentare quali vino e olio che una volta venivano venduti sfusi.
Accadeva così, ad esempio, che la
massaia recasse la sua bottiglia alla bottega del vinaio per rimpinguare le
scorte enologiche in previsione del pranzo della domenica; il commerciante
spillava il vino dalla botte in una caraffa e con questa versava il vino nella
bottiglia, raggiunta la quantità pattuita sollevava la caraffa per interrompere
il flusso del liquido ma quasi sempre la signora sollecitava “a ghicatora”,
ovvero lo invitava a inclinare un altro po’ la brocca al fine di riempire fino
all’orlo la bottiglia.
“Na signò, e quist’ je nu litre de
vine” (Ecco signora, questo è un litro di vino).
“E a ghicatora, non c’ m’l’ha mettere?” (E la “piegatura”
non la aggiungi?)
“Na signò, mo basta ca c’no spitterra tutt’n’terra!” (Ecco
signora, adesso basta perché altrimenti trabocca per terra!).
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