PURE A MUGGHIERE D’U SINNACHE HA SCIVULATE
Chiacchieravo sapidamente con Archibald, il mio indefettibile domestico anglosassone ed il tema del discorso scivolò sul commento del piccolo rinfresco che avevo offerto ai quasi trecento intimi amici che mi onorano della loro considerazione, approntato nel parco “Vanvitelli” della mia modesta magione per festeggiare la promozione dell’Arsenal Taranto.
Con la sua estrema discrezione il vecchio Archie mi informò che uno degli invitati, persona di spicco tra le autorità presenti il cui nome taccio per carità di patria, invece di brindare “sursum corde” con la Raffo di ordinanza, aveva celebrato l’evento con una misera “Tourtel”.
Rimasi basito di fronte a tale iconoclastia e quasi senza rendermene conto esclamai <<Pure a mugghiere d’u sinnache ha scivulate!>> (Anche la moglie del sindaco è scivolata!), ricevendo subito dopo una silente richiesta di chiarimenti da parte di Archibald, che non riusciva a credere di dover includere tra le appartenenti al sesso femminile anche il corpulento partner della signora Di Bello, attuale primo cittadino di Taranto.
Con la sua estrema discrezione il vecchio Archie mi informò che uno degli invitati, persona di spicco tra le autorità presenti il cui nome taccio per carità di patria, invece di brindare “sursum corde” con la Raffo di ordinanza, aveva celebrato l’evento con una misera “Tourtel”.
Rimasi basito di fronte a tale iconoclastia e quasi senza rendermene conto esclamai <<Pure a mugghiere d’u sinnache ha scivulate!>> (Anche la moglie del sindaco è scivolata!), ricevendo subito dopo una silente richiesta di chiarimenti da parte di Archibald, che non riusciva a credere di dover includere tra le appartenenti al sesso femminile anche il corpulento partner della signora Di Bello, attuale primo cittadino di Taranto.
Al fine di evitare la propalazione di pettegolezzi di bassa lega e di permettere all’onusto Archibald una sempre maggiore conoscenza delle sfumature della nostra lingua, mi risolsi a illustrargli immantinentemente l’arcano consultando, senza por tempo in mezzo, l’agile volumetto “Tra moglie e marito io faccio lo zito – Memorie di uno scambista di coppie” del tunisino Maquannè Kalloshanammashè (Biserta, 1887 – Lussazioni multiple riportate durante le finali del XXVII° campionato di “Kamasutra acrobatico – classe free style - categoria Seniores”, 1938) che illustrava alla perfezione l’espressione da me citata, dandone inoltre una precisa esegesi.
Racconta infatti il Kalloshanammashè che durante il periodo quaresimale di molti anni fa, convenne in Taranto un frate predicatore proveniente dalle fredde terre del nord Italia.
Detto frate si dedicava quotidianamente anche all’ufficio della confessione, in modo da meglio conoscere le pecorelle del gregge locale e raccogliere materiale per le sue avvincenti prediche serali.
Accadde un giorno che si accostò al confessionale una giovane signora che ammise con vergogna e pentimento di avere molto peccato; il frate chiese maggiori lumi alla donna, anche al fine di poter stabilire la giusta penitenza e questa, tra renitenze e pudore, sussurrò di aver “scivolato”.
Un qualsiasi religioso locale avrebbe subito compreso che quella “scivolata” altro non era che l’eufemistica definizione di un congiungimento carnale con persona diversa dal proprio legittimo consorte, un essere scivolata nelle spire della lubrica lussuria insomma; l’origine straniera del frate lo portò invece a credere che la donna, dopo aver scivolato su di un marciapiede sconnesso avesse peccato inveendo e bestemmiando, un peccato leggero, dopotutto, e così leggera fu la penitenza.
L’adultera si vide così emendata con quattro “Pater” e due “Ave Gloria” e non perse tempo a confidare alle sue comari che il prete longobardo era molto meno severo dei suoi colleghi autoctoni nello stigmatizzare “quel” peccato, con la logica conseguenza che tutte le amiche che avevano la stessa macchia sulla coscienza fecero la fila davanti al confessionale, raccontando ognuna le sue “scivolate”.
Il frate perseverò dell’errore e apprezzò molto l’adamantina fede del popolo locale che non aveva, secondo lui, altro da farsi perdonare che qualche infrazione al comandamento che impone di non nominare invano il nome di Dio.
Il tempo passava veloce e venne Pasqua, celebrata con una funzione in pompa magna alla presenza del popolo e delle autorità, col sindaco in prima fila.
Al momento del sermone il frate guadagnò il pulpito e lodò la rettitudine della comunità locale, conosciuta ed apprezzata tramite il quotidiano esercizio della confessione; poi si rivolse direttamente al sindaco e gli disse che una migliore manutenzione stradale avrebbe sicuramente ridotto la frequenza delle cadute delle locali massaie, diminuendo di conseguenza anche le loro imprecazioni.
<<Ci pensi, signor sindaco – disse il frate – ci pensi perché quasi tutte hanno scivolato almeno una volte e, tra le altre, anche a sua moglie è accaduto spesso questo incidente>>.
Alla affermazione seguì un attimo di silenzio, poi la chiesa esplose: il sindaco diviso tra l’imbarazzo e la rabbia per la sua pubblica condizione di marito tradito, tutti i coniugati che squadravano con sospetto le mogli, tutte le mogli che abbassavano lo sguardo cercando di mimetizzare la loro colpa vera o presunta, i non coniugati che si godevano lo spettacolo sghignazzando a più non posso.
La funzione si interruppe bruscamente e da allora il capitolo metropolitano, al fine di evitare il ripetersi di tali imbarazzanti “misunderstanding”, non chiama più frati stranieri ad officiare le funzioni religiose.
Stante quanto sopra, l’espressione ha quindi una valenza multipla; può essere pronunciata dal reo che tenti di diminuire il peso della sua colpa facendo passare quasi come inevitabile il suo errore con una sorta di originale interpretazione del “mal comune mezzo gaudio”: <
Ancora una volta assume evidenza l’animo del tarantino, la sua accettazione consapevole anche se mai completamente rassegnata ad un destino a cui non vale ribellarsi perché, tanto, pure a mugghiere d’u sinnache ha scivulate.
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