Rispettare u cane p’ù patrune


Mentre apprezzavo compiaciuto l’estrinsecazione artistica di Manuela Arcuri riprodotta su un calendario che di certo avrebbe mandato in solluchero più di un camionista, il semper fidelis Archibald mi annunciò la visita tanto improvvisa quanto inopportuna di un giovinotto con un concetto di eleganza assai opinabile che, con un giro di parole contorto e adulatorio, chiese il permesso di usufruire di un paio di ettari del modesto parco che allieta la mia umile dimora per tenere un “rave party”.
Ascoltai pazientemente l’adolescente e risposi che ben volentieri avrei esaudito la sua richiesta se non fosse stato per il timore che gli asfodeli ed i ranuncoli mal avrebbero sopportato tale trambusto, che sicuramente avrebbe nuociuto alla loro armonica crescita.


Allontanatosi che fu imberbe questuante incontrai lo sguardo interrogativo di Archibald che mi chiese come mai avessi trattato con tanta condiscendenza il novello David Zard, invece di dare ordine di sguinzagliare i dobermann, come era mio costume fare in questi casi.

Risposi al vecchio Archie che il puer era il nipote di un cugino del fratello del cognato dello zio di un mio carissimo amico, persona degna di stima e rispetto tanto che, pur non estendendo i sensi della mia considerazione anche al suo giovine  parente che mi aveva appena visitato, ritenevo che fosse il caso di “Rispettare u cane p’ù patrune”.
Il senso dell’ultima frase sfuggì ad Archibald e fu giocoforza illustrargli anche il significato di questo modo di dire.
Temendo di non rendere appieno lo spirito tarentino che permeava l’espressione citata, mi risolsi a prendere dalla mia biblioteca personale una copia del famoso romanzo “Do the cozzars dreams electric mussels?” scritto a sei mani dal gruppo di intellettuali Claude Fromquja, Nick Kaput e John Livewater che, sperando di ripetere il successo del progetto Luther Blisset, agivano in trio animati dal famoso principio del “mantineme ca ti mantegne”.

Il canuto Archibald aveva una cultura rigorosamente classica e dovetti quindi tratteggiargli a grandi linee la trama del romanzo: Nella Taranto del 2015, Giuanne Deccardo è un ex addetto al controllo qualità presso l’impianto di stabulazione di mitili di Taranto che, stanco e nauseato dal suo lavoro si licenzia.
Viene bruscamente richiamato in servizio dal suo ex superiore, che praticamente lo obbliga a compiere un impresa in cui solo lui può riuscire: individuare sei cozzari provenienti dagli allevamenti extra-mondo di Chioggia per impedirgli di invadere il mercato ittico locale, replicando i modi ed i comportamenti dei cozzari tarantini.
Il romanzo è denso di colpi di scena, notevoli sono soprattutto le scene in cui Deccardo lotta contro Bepi “spuenzele” Roibatti, leader dei replicanti veneti e quella in cui il protagonista si infatua di una replicante (tutt’altro che cozzara) sino a fuggire con lei verso una ignota località dove dare vita ad una nuova specie di mitili geneticamente modificati.

Durante un silenzioso monologo, Giuanne Deccarde spiega perché non si preoccupa di Catavede Gaffe, lo scagnozzo che il suo ex superiore gli ha messo alle calcagna per controllarlo, affermando che: “A Catavede non ci  u penze proprie, pure ca quidde m’ vò lleve subbite di nnanze all’cugghiune, nnò s’permettesse maje ccù m’ face nu sgarbe piccè sape ca u cape sue m’port’a palme de mane e rispetta u cane pù patrone” (Non mi cruccio per niente di Cataldo, anche se so che gradirebbe che togliessi subito il disturbo non si permetterebbe mai di comportarsi nei miei confronti in maniera meno che corretta, perché sa che il suo superiore mi tiene in alta considerazione e quindi rispetta il cane per il padrone).

Mi ero fatto prendere dall’entusiasmo nel raccontare una storia molto avvincente e solo un diplomatico colpo di tosse di Archibald mi riportò bruscamente alla realtà dei fatti.
Ausiliato dal racconto appena fatto, illustrai così all’attento Archie il significato della frase in esame, impiegata quanto ci si dimostra tolleranti e comprensivi nei confronti di qualcuno non tanto per la persona in se quanto perché questa è legata da rapporti di amicizia, parentela o affari con qualcuno che stimiamo o che comunque non vogliamo indisporre.

Tra i tanti esempi possiamo citare la sopportazione di parenti acquisiti (cognati/e, nuore, generi) per non turbare i rapporti con i nostri consanguinei, la stoica pazienza che ci permette di sopportare le catastrofi combinate da infanti incautamente lasciati liberi in casa nostra dai genitori, carissimi amici che ci hanno reso una gradita visita, sino ad arrivare all’adulazione di un pechinese o di un barboncino, che in altre occasioni non avremmo degnato di una occhiata, solo perché condotti al guinzaglio da una avvenente fanciulla che vorremmo bendisporre nei nostri confronti.

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