A CI MOZZECHE U CANE? A U STRAZZATE!
Stavo arricchendo la mia collezione di brani musicali in formato mp3 grazie alla disponibilità di un sito internet semi-clandestino, quando una improvvisa mancanza di energia elettrica interruppe bruscamente l’operazione, vanificando l’impegno che sino a quel momento vi avevo profuso.
Notevolmente risentito per il ripetersi dell’inconveniente esclamai stizzito: “A CI MOZZECHE U CANE? A U STRAZZATE!” (Chi viene morso dal cane? Lo straccione!).
Voltatomi di scatto, intravidi nel buio la faccia di Archibald, il mio inossidabile maggiordomo a malapena rischiarato dalla tremolante luce di una candela, ed ancora una volta la sua espressione mi chiedeva spiegazioni, con uno sguardo che valeva cento parole.
Non potendomi servire per la bisogna delle moderne tecnologie informatiche, decisi di aiutarmi consultando l’opera del pilota automobilistico Jarno “Chico” Trulli (madre norvegese, padre di Martina Franca) che nel suo libro di memorie intitolato “Cint’ottanta, cint’novanta” conclude la descrizione della serie di contrattempi che gli impedirono la conquista del titolo iridato con il motto da me ripreso, fornendo poi dello stesso una sapida analisi a chi non avesse, come lui, genitori originari della Murgia tarantina.
Spiega infatti il Trulli che con questa espressione si sottolinea con evidente dispiacere l’accanirsi particolarmente malevolo del destino su un soggetto già duramente provato:“E saput di Antonie?, Ajere l’honne rubbate a magana, a settimane scorse l’honne licenziate e a figghie s’ n’ha scinnute cu u zite!” (Hai saputo di Antonio? Ieri gli hanno rubato la macchina, la settimana scorsa lo hanno licenziato e la figlia è scappata di casa col fidanzato!) - “Je proprie vere, a cci mozzeche u cane? Au strazzate!” (E’ proprio vero, a chi morde il cane? Lo straccione!).
Di senso diametralmente opposto al “piove sempre sul bagnato” quindi, l’espressione constata che spesso un evento doloroso (il morso del cane) colpisce un individuo già notevolmente bersagliato dalla sfortuna (lo straccione).
Ma la particolarità del Trulli non sta nel fornire il significato del modo di dire, tutto sommato facilmente comprensibile, quanto nell’evidenziarne alcune particolarità nascoste ad un lettore meno attento o esperto. Intanto il tono con cui viene pronunciato: vi è una domanda che non esprime dubbi o incertezze ma viceversa sollecita invece una risposta universalmente nota; il cane morde SEMPRE lo straccione, il destino colpisce SEMPRE il poveraccio, la sfortuna perseguita SEMPRE chi è già bersaglio dei suoi strali; una ardita interpretazione dell’evangelico “a chi ha verrà dato ed a chi non ha verrà tolto” che constata amaramente l’accanirsi del fato su chi è perseguitato dalla sua cattiva stella.
Poi vi è il cane, solitamente simbolo di fedeltà e dedizione all’uomo, che qui invece, come il tri-teste Cerbero, è il mezzo che una spietata e incomprensibile Volontà superiore impiega per offendere ed umiliare la sua vittima, confinata e reclusa nel suo personale girone infernale da cui non è possibile evadere.
Ed ancora una volta si esprime la filosofica accettazione del proprio destino da parte del tarantino che, novello Giobbe, china il capo di fronte al proprio destino di dolore e sofferenza, accettandolo senza recriminare, senza alzare blasfemi pugni al cielo, rinnovando la dolorosa sottomissione al volere della natura matrigna che il poeta recanatese tanto mirabilmente espresse nelle sue opere.
Notevolmente risentito per il ripetersi dell’inconveniente esclamai stizzito: “A CI MOZZECHE U CANE? A U STRAZZATE!” (Chi viene morso dal cane? Lo straccione!).
Voltatomi di scatto, intravidi nel buio la faccia di Archibald, il mio inossidabile maggiordomo a malapena rischiarato dalla tremolante luce di una candela, ed ancora una volta la sua espressione mi chiedeva spiegazioni, con uno sguardo che valeva cento parole.
Non potendomi servire per la bisogna delle moderne tecnologie informatiche, decisi di aiutarmi consultando l’opera del pilota automobilistico Jarno “Chico” Trulli (madre norvegese, padre di Martina Franca) che nel suo libro di memorie intitolato “Cint’ottanta, cint’novanta” conclude la descrizione della serie di contrattempi che gli impedirono la conquista del titolo iridato con il motto da me ripreso, fornendo poi dello stesso una sapida analisi a chi non avesse, come lui, genitori originari della Murgia tarantina.
Spiega infatti il Trulli che con questa espressione si sottolinea con evidente dispiacere l’accanirsi particolarmente malevolo del destino su un soggetto già duramente provato:“E saput di Antonie?, Ajere l’honne rubbate a magana, a settimane scorse l’honne licenziate e a figghie s’ n’ha scinnute cu u zite!” (Hai saputo di Antonio? Ieri gli hanno rubato la macchina, la settimana scorsa lo hanno licenziato e la figlia è scappata di casa col fidanzato!) - “Je proprie vere, a cci mozzeche u cane? Au strazzate!” (E’ proprio vero, a chi morde il cane? Lo straccione!).
Di senso diametralmente opposto al “piove sempre sul bagnato” quindi, l’espressione constata che spesso un evento doloroso (il morso del cane) colpisce un individuo già notevolmente bersagliato dalla sfortuna (lo straccione).
Ma la particolarità del Trulli non sta nel fornire il significato del modo di dire, tutto sommato facilmente comprensibile, quanto nell’evidenziarne alcune particolarità nascoste ad un lettore meno attento o esperto. Intanto il tono con cui viene pronunciato: vi è una domanda che non esprime dubbi o incertezze ma viceversa sollecita invece una risposta universalmente nota; il cane morde SEMPRE lo straccione, il destino colpisce SEMPRE il poveraccio, la sfortuna perseguita SEMPRE chi è già bersaglio dei suoi strali; una ardita interpretazione dell’evangelico “a chi ha verrà dato ed a chi non ha verrà tolto” che constata amaramente l’accanirsi del fato su chi è perseguitato dalla sua cattiva stella.
Poi vi è il cane, solitamente simbolo di fedeltà e dedizione all’uomo, che qui invece, come il tri-teste Cerbero, è il mezzo che una spietata e incomprensibile Volontà superiore impiega per offendere ed umiliare la sua vittima, confinata e reclusa nel suo personale girone infernale da cui non è possibile evadere.
Ed ancora una volta si esprime la filosofica accettazione del proprio destino da parte del tarantino che, novello Giobbe, china il capo di fronte al proprio destino di dolore e sofferenza, accettandolo senza recriminare, senza alzare blasfemi pugni al cielo, rinnovando la dolorosa sottomissione al volere della natura matrigna che il poeta recanatese tanto mirabilmente espresse nelle sue opere.
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