QUANNA FACE L’OGNE A PIZZA

Ispirato da “la battaglia di Anghiari”, ormai perduta opera di Leonardo Da Vinci, stavo abbellendo le pareti della sala d’ardimento destinata agli esercizi ginnici e situata al piano ammezzato dell’ala sud-sud-ovest della mia modesta casetta con un opera ad encausto intitolata “Quando il delfino battè u liotru” ed ispirata alla partita che vide contrapposte le squadre di calcio del Taranto e del Catania il 10 maggio 1987. Si imposero allora i pugliesi (gol di De Vitis, autorete di Longobardo, nel mezzo la rete siciliana di Borghi) mentre anni dopo i colori jonici pagarono cara l’insipienza e l’infingardaggine della loro dirigenza.

Ero tutto intento a mescolare pigmenti e colori quando venni raggiunto dal solerte Archibald, devoto maggiordomo, che mi recava il calice di Chateau Latour Cabernet Sauvignon con cui contrastavo l’arsura indotta dalla particolare tecnica artistica da me praticata.

Informatosi sull’evento che intendevo immortalare e sull’andamento attuale della squadra che fu di Chimenti e Gori, l’anglosassone famiglio mi chiese, non senza una punta di campanilistico orgoglio, quando immaginavo che il Taranto avesse una squadra ed una dirigenza degne del suo pubblico. Punto nel vivo e ammaestrato dai miei mentori Peppe e Aldo, ma pur sempre conscio che la verità, seppur dolorosa, non va mai negata, lo guardai in tralice e risposi: “Archibà, me sa me sa ca u Taranto hadda vencere na partita quanna a pizza face l’ogne” (Mio caro Archibald, ho il fondato timore che la compagine jonica festeggerà una vittoria quando sul pene spunterà un’unghia).
L’allampanato britanno riuscì a malapena a nascondere lo stupore, e mi chiese per quale singolare corrispondenza di magia simpatica una vittoria calcistica potesse essere raggiunta solo al prezzo di appendere una focaccia al volto, la qual cosa mi rese consapevole che per le oramai note assonanze fonetiche tra la parlata della perfida Albione e la lingua dei figli di Falanto, Archie aveva tradotto il lemma tarantino “face” con l’inglese “faccia” e soprattutto aveva scambiato la ionica lamina cornea semitrasparente con hung, ovvero il past participle del verbo inglese “to hang” .
Fui giocoforza costretto a sospendere la decorazione parietale e chiedere al gioviale Archibald di seguirmi in biblioteca, ove ricorsi al provvido volume “Da Giuliano Pavone a Sergio Tacchini – Anamnesi ed esegesi del calcio tarantino e dei suoi sponsor tecnici”, redatto con impareggiabile dovizia di particolari dal Mokatawande Powide (Maputo, 1895 – disidratazione in attesa del treno regionale Bari – Taranto alla stazione ferroviaria di Bellavista, 1978), che fu professore emerito di cozzarologia applicata con specializzazione nel dileggio arbitrale presso lo I.U.L.M. (Istituto Universitario di Livoria del Mozambico).
Il Mokatawande Powide condusse lunghe e fruttuose indagini sulle sponde dello Ionio, frequentando assiduamente campi sportivi ufficiali ed improvvisati, trasferte di ultrà e club di tifosi, distillando da queste esperienze la conoscenza di un vero e proprio stile di vita sapido e originale, che facevano sembrare gli appartenenti dello ICF del West Ham United un gruppo di lepidi seminaristi.
Il particolare il Mokatawande Powide cita il detto da me usato come una arguta metafora indicante un evento con probabilità di realizzazione pari allo zero. L’origine del detto are rifarsi icasticamente ad un passato in cui, vuoi per la promiscuità sessuale vuoi per la scarsa profilassi, condilomi e verruche genitali erano malanni abbastanza frequenti e diffusi. L’aspetto visivo di codeste escrescenze ed il loro tempo di incubazione relativamente lungo sembrano peraltro ad aver contribuito in maniera decisiva alla elaborazione del motto.
E’ di tutta evidenza – sottolinea il Mokatawande Powide – che sebbene una eventuale microcondilomatosi possa avere un aspetto più o meno simile ad un’ungula, la stessa è costituita da protuberanze carnose e di morbida consistenza, quindi affatto diversa dall’unghia stessa; ciò non di meno, il fatto che nella weltanschauung ionica il solo balano-peniero potesse “arricchirsi” di altre protuberanze simil prepuziali ha reso l’immagine facilmente fruibile all’immaginario collettivo.
L’originarsi da una malattia sessualmente trasmissibile rende inoltre l’evento ancor più deplorabile, poiché al dolore della sintomatologia ed al fastidio della terapia, si aggiunge il dispiacere dell’astinenza dalla copula per colui che ne è affetto.
Ancora oggi quindi, il motto è impiegato con fulminante efficacia per descrivere un evento atteso quanto difficile a realizzarsi, di cui ufficialmente non si riesce a trovare motivazione: “Anto’, ma quanna è ca sus’a u Comune de Tarde s’honna dà da fà pe’ inzippà u referendum sus’a chiusura dell’ILVA?” “Seeee Cata’, quann’a pizza face l’ogne!”
Viene altresì impiegato con altrettanta efficacia anche per dilazionare ad un tempo infinito l’assolvimento di un compito o l’onorare un debito particolarmente gravoso: “Cumbà, ma quann’è ca m’ha pajà quedda cascia de Raffo ca t’è pigghiate u mese scorse?” “Eh, oramaje me l’agghie bevute alla salute toa, po’ te le paje quann’a pizza face l’ogne!”

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