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Visualizzazione dei post da 2010

TENE CHIU’ CULE CA SENTIMENTE

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In occasione della multimiliardaria vincita al “Super-Enalotto” che ha portato Grottaglie agli onori della cronaca, ho riascoltato una delle espressioni che più spesso ricorrono nel vernacolo tarantino, ovvero: "TENE CHIU’ CULE CA SENTIMENTE” ( ha più fortuna che intelligenza ). La frase commenta con una punta di invidia la fortuna sfacciata di chi riesce nel suo intento nonostante delle doti intellettive che rasentano la sufficienza. In particolare capita si sentire l’espressione in occasione di vincite a tombola, lotto o qualsivoglia gioco d’azzardo, ritrovamento fortuito di oggetti e/o effetti personali di valore (collane, orologi, bracciali, ecc.), assunzioni a tempo indeterminato nei ranghi della Pubblica Amministrazione o dell’Arsenale.

L' MANC’ A BOTTE P'A CADUTE

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Tra le tante qualità della saggezza popolare, vi è sicuramente la capacità di condensare in poche parole il commento di un fatto accaduto o la previsione di un futuro più o meno prossimo. Uno dei frutti di questa ancestrale filosofia è senz’altro il motto “ L’MANC’ A BOTTE P’A CADUTE ” ( gli manca una spinta perché cada ).

L’CORNE D’U PEZZENTE SO’ DE NUCE, QUERE D’U SIGNORE DE VAMMASCIE

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Ero intento ad eseguire la sequenza del “san ju ich no jo kata” nella stanza d’armi ubicata nell’ala sud-sud-ovest della mia modesta abitazione, quando dalla finestra aperta colsi brani di un alterco che si svolgeva nel giardino. Chiesi ad Archibald di dettagliarmi su questo spiacevole episodio che aveva distratto la mia concentrazione marziale ed il mio allampanato maggiordomo ritornò dopo qualche minuto per informarmi con una discreta allegoria che il giardiniere rimproverava alla consorte di disdegnare l’esile tralcio di vite che egli recava come dotazione virile, preferendo soddisfare il suo “pollice verde” accudendo giovani e robusti rami di quercia incontrati in locali di assai dubbia moralità da lei frequentati. Apprezzai la sottile parafrasi adottata dal sempre riservato Archie e commentai l’accaduto esclamando “ L’CORNE D’U PEZZENTE SO’ DE NUCE, LE CORNE D’U SIGNORE DE VAMMASCIE ” ( Le corna del pezzente sono di noci, quelle del signore di bambagia ); per l’ennesima volta la p

T'AGGHIA 'MPARÀ E T'AGGHIA A PERDERE

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Dopo un paio d’ore di infruttuosi tentativi di spiegare le regole base della pirobazia per poter consentire ad Archibald - il gentiluomo da camera 25 ore al giorno attento a soddisfare ogni mio desiderio – di camminare indenne sulle spiaggie joniche dopo i vari falò della notte di Ferragosto, ho esclamato deluso: “ T’AGGHIA ‘MPARA’ E T’AGGHIA PERDERE ” ( devo istruirti e ti devo perdere ). La frase è assai usata quando si voglia esprimere la dolorosa certezza che, nonostante i nostri sforzi, la persona che stiamo cercando di istruire si dimostrerà assolutamente renitente e refrattaria ad adeguare e modificare il suo discutibile comportamento.

HA LASSATE CRISTE PE SCÈ ALLE COZZE

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Deliziavo il mio animo da melomane ascoltando la versione house di “A frusckulona mea” di Mimmo Carrino nella versione remix di Joe T Vannelli, quando mi si parò davanti il solito Archibald, che con ampi gesti delle mani cercava di attirare la mia attenzione al fine di informarmi che la cena era servita in tavola. Raggiunto il desco e ringraziata la Provvidenza che mi aveva concesso di imbandire la tavola, mi accorsi che le pietanze erano servite dallo stesso Archibald piuttosto che da Galina Vodkaezabov, una prosperosa bionda degli Urali che usava indossare minigonne di lunghezza inversamente proporzionale a quella delle sue chilometriche gambe. Chiesi chiarimenti di tale grave assenza e il buon Archie mi informò che la figliola aveva chiesto un giorno di permesso per recarsi dalla parrucchiera a sistemare la sua acconciatura. " E CCE COSE - esclamai - HA LASSATE CRISTE PE SCE’ ALLE COZZE!" ( Ha lasciato Cristo per andare a [raccogliere le] lumache ).

Farsi a fezza

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Mentre sorvegliava che tutti i partecipanti al cocktail party che si svolgeva nel salone degli arazzi della mia modesta residenza primaverile fossero serviti a dovere, Archibald, il mio fedele maggiordomo che si fa un punto di onore nel offrirmi i suoi preziosi servigi, veniva chiamato da uno degli invitati che richiedeva una quantità affatto limitata di bevande alcoliche di varia natura e qualità al fine esclusivo di << farsi a fezza >>. Stante la sua provenienza dalla terra di Albione, al mio sottoposto sfuggiva il significato della frase e mi chiedeva come mai vi fosse nel suo interlocutore la volontà di assumere il sembiante del noto copricapo arabo di forma tronco-circolare indossato anche dagli appartenenti alla gloriosa arma dei bersaglieri.

Gerarchie popolari

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Mentre mi recavo fischiettano nella sauna ospitata nella zona fitness della mia umile dimora, sentii Archibald, il segaligno maggiordomo che mi ausilia nella conduzione domestica, rampognare aspramente uno dei domestici appena assunti. Richiestogli il motivo di tale reprimenda, egli mi disse che nonostante avesse più volte informato il giovane sottoposto del fatto che mai avesse prestato servizio come discente in alcuna scuola, pure questi continuava ad apostrofarlo con il titolo di "Mestre Archibald". Mi fu subito chiaro che il buon Archie ignorava la particolare gerarchia in uso a Taranto e mi risolsi ad illustrargliela al fine di migliorare la comunicazione tra lui ed il resto della servitù.

a proposito di donne

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Passavo per il corridoio che si affaccia sulla dependance che ospita il personale di servizio quando vidi Archibald, il mio incommensurabile maggiordomo anglosassone abbigliato con una polo ed un pantalone di velluto a coste larghe. Rimasi sorpreso da un abbigliamento casual che in tanti anni di servizio non aveva mai indossato ed ipotizzai subito che questo fosse indizio di una momentanea rilassatezza del suo carattere solitamente riservato e taciturno, decidendomi così di cercare risposta ad una domanda che da tempo mi assillava; Mi avvicinai con nonchalance e dopo avergli fatto i complimenti per il suo gusto in fatto di abbigliamento gli chiesi come mai non avesse mai avuto una compagna al suo fianco.

VENDRA CHIENA CANDE, E NO’ CAMMISA NOVA

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Sorseggiavo il tè servito da Archibald, il mio impareggiabile maggiordomo anglosassone quando questi, scusandosi per l’ardire, mi chiese di riassumere in poche parole la filosofia di vita del tarantino al fine di consentirgli una migliore comprensione del popolo che così benignamente lo aveva accolto. Pur conscio della difficoltà del compito affidatami, decisi di soddisfare la sua curiosità e ricorsi all’ausilio della encomiabile opera “Estetica come scienza della espressione e linguistica generale” di Benedetto Croce (Pescasseroli, 1866 - escoriazioni multiple a seguito di tentativo di scippo in Napoli, 1952), intellettuale a cui fu dedicato l’omonimo quartiere di Taranto ad imperitura memoria.

QUANNA FACE L’OGNE A PIZZA

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Ispirato da “la battaglia di Anghiari”, ormai perduta opera di Leonardo Da Vinci, stavo abbellendo le pareti della sala d’ardimento destinata agli esercizi ginnici e situata al piano ammezzato dell’ala sud-sud-ovest della mia modesta casetta con un opera ad encausto intitolata “Quando il delfino battè u liotru” ed ispirata alla partita che vide contrapposte le squadre di calcio del Taranto e del Catania il 10 maggio 1987. Si imposero allora i pugliesi (gol di De Vitis, autorete di Longobardo, nel mezzo la rete siciliana di Borghi) mentre anni dopo i colori jonici pagarono cara l’insipienza e l’infingardaggine della loro dirigenza.

Fine di un ciclo

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Un giorno Biwenabhirrha, l'appassionato allievo, chiese al Maestro come comprendere quando un discepolo ha terminato il suo apprendistato. Il Maestro allora raccontò la storia del Maestro Nakanadesa e del suo allievo Notrogiro e di quando, un giorno, il maestro giunse silenziosamente alle spalle dell'allievo, fermandosi ad osservarlo. Il giovane, a sua volta, pur avvertendone la presenza, continuò senza scomporsi a sbattere con forza il polpo sugli scogli per ammorbidirlo, concentrando tutta la sua attenzione nei colpi che stava sferrando. “Cosa fai?”, domandò bruscamente il maestro. Notrogiro si volse sorridente. “Non lo so - rispose - sto cercando di scoprirlo”. “E tu cerchi la comprensione con pugni e schiaffi?”, ribadì ironicamente Nakanadesa. “Qualcuno ha detto - rifletté a voce alta il discepolo - che ciò che conta, più che la Via, è colui che cammina”.

A CI MOZZECHE U CANE? A U STRAZZATE!

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Stavo arricchendo la mia collezione di brani musicali in formato mp3 grazie alla disponibilità di un sito internet semi-clandestino, quando una improvvisa mancanza di energia elettrica interruppe bruscamente l’operazione, vanificando l’impegno che sino a quel momento vi avevo profuso. Notevolmente risentito per il ripetersi dell’inconveniente esclamai stizzito: “ A CI MOZZECHE U CANE? A U STRAZZATE! ” ( Chi viene morso dal cane? Lo straccione! ).

Pizza a cì no' dice pizza!

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Una possibile sintesi di analisi semantica (Liberamente ispirato a “Tre civette sul comò” di Umbro Eco da “Il secondo diario minimo”) Ogni popolo ha come dotazione quasi genetica del proprio intimo culturale un modo di dire, una frase, un motto intorno a cui si stringono a coorte i suoi componenti, tal quali fedeli soldati intorno alla bandiera del loro reggimento minacciata da preponderanti orde nemiche. A Taranto si può affermare, senza grande tema di smentite, che tale vessillo è costituito dalla cinquina poetica: pizza a cì nò dice pizza cu a mane sobbra a pizza a cui tanti e tanti esegeti e dossografi hanno dedicato anni di studio e fiumi di inchiostro. Pur senza volerci minimamente paragonare a cotanti ingegni, non riteniamo inutile o vanaglorioso il tentativo di sintetizzare in poche righe, ad ausilio dei nostri fedeli lettori, le conclusioni e le opinioni degli illustri studiosi che a sì nota composizione hanno fornito luce e fama.

Le domande di Biwenabhirrha - Verità parziali

Un giorno Biwenabhirrha, il discepolo prediletto, chiese al Maestro se si potesse avere ragione e torto allo stesso momento. Il Maestro chiamò cinque ciechi e li fece portare vicino ad una bottiglia di Raffo, dopodiché chiese loro di toccarla e dire a cosa somigliasse.

INTRODUZIONE (Sempre parlando con decenza)

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In molti mi chiedono, spesso, di parlare del Maestro, di chi sia, quanti anni abbia, da dove venga. A tutti coloro rispondo come Lui rispose a me quando, tanti anni fa, gli feci le stesse domande: "Perché ti interessi della forma della bottiglia, se poi quello che importa è se al suo interno è contenuta la Raffo? Queste brevi note non vogliono essere altro che un parziale riflesso della Sua immensa saggezza, fornite a coloro che vogliono dissetarsi alla fonte della Sua incommensurabile conoscenza.

VO’ PAGGHIE PE CIENTE CAVADDE!

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Ero completamente assorbito dalla osservazione della galassia di Andromeda col mio telescopio (che ogni tanto accidentalmente si spostava in corrispondenza delle finestre della mia procace e disinibita dirimpettaia) quando un leggero colpo di tosse rivelò la presenza di Archibald, il segaligno maggiordomo che, ottenuta la mia attenzione, mi mostrò la parcella del decoratore che aveva realizzato alcuni trompe-l’oeil nell’ala sud-sud-ovest della mia angusta dimora. Pur apprezzando il risultato della sua estrinsecazione artistica, l’importo fatturato mi sembrò ingiustificatamente elevato e non potei trattenermi dall’esclamare: “ MOCCA A JIDDE, VO’ PAGGHIE PE CIENTE CAVADDE! ” ( Accidenti a lui, vuole paglia per cento cavalli !).

INTRODUZIONE (parlando con decenza...)

Prima di tutto, è bene confessare una cosa: questa modesta raccolta di scritti vuole consentire anche a chi non abbia pratica col dialetto e la filosofia di vita tarantina di conoscere un po’ della nostra storia e cultura, ma solo apparentemente. In realtà è la superba risposta di un popolo conscio del proprio luminoso passato e del suo oscuro presente, un colpo di coda dell’orgoglio dei figli di Taras che si stringono a coorte esclamando: "Chi non ci vuole non ci merita!". Ebbene si, non badate al corso T.A.R.A.S. quello è fumo negli occhi; la verità è nelle altre pagine, in quelle righe che ospitano espressioni che solo chi ha respirato i metallici fumi dell’Italsider può comprendere, in quei modi di dire cinici e rassegnati che da sempre sferzano e consolano le rughe segnate dalla salsedine di chi dal mare trae gioia e dolore, in quelle frasi usate e abusate da tutti coloro che di fronte ad un forestiero, foss’anche il Papa, si presenterebbero con un "Nuje? Ce ne vuli