VENDRA CHIENA CANDE, E NO’ CAMMISA NOVA

Sorseggiavo il tè servito da Archibald, il mio impareggiabile maggiordomo anglosassone quando questi, scusandosi per l’ardire, mi chiese di riassumere in poche parole la filosofia di vita del tarantino al fine di consentirgli una migliore comprensione del popolo che così benignamente lo aveva accolto.

Pur conscio della difficoltà del compito affidatami, decisi di soddisfare la sua curiosità e ricorsi all’ausilio della encomiabile opera “Estetica come scienza della espressione e linguistica generale” di Benedetto Croce (Pescasseroli, 1866 - escoriazioni multiple a seguito di tentativo di scippo in Napoli, 1952), intellettuale a cui fu dedicato l’omonimo quartiere di Taranto ad imperitura memoria.


In questo saggio il Croce conduce una approfondita analisi del “modus vivendi” del tarantino, riconoscendo in esso l’origine di concezioni filosofiche di ben più vasta diffusione e popolarità.

A titolo di esempio il Croce porta il detto “VENDRA CHIENA CANDE, E NO’ CAMMISA NOVA” (Pancia piena canta, e non camicia nuova) che egli esamina gnoseologicamente affermando che da questo postulato E. Fromm trasse fondamentale ispirazione per il suo “Avere o essere”.

Il detto esprime infatti icasticamente quali sono i veri valori della vita, sgombrando il campo da falsi obbiettivi ed inaffidabili traguardi; il vero scopo della vita è l’ “essere”, essere pienamente e completamente in contatto con sé stessi, con la propria fisicità e con la propria spiritualità, risolvendo definitivamente il dualismo contrappositivo tra  corpo e anima e raggiungendo quindi un superiore stato di coscienza rappresentato magistralmente dalla “pancia piena”, simbolo di benessere e serenità.

Questo è ciò che conta (e si noti la poetica sostituzione di vocale, per cui “conta”, facilmente associabile alla fredda e astratta matematica, diventa “canta”, espressione di giubilo e gioia di vivere) non è quindi una “camicia nuova”, espressione dell’ “avere” più squallido ed insoddisfacente, rimando diretto agli evangelici sepolcri imbiancati, pietoso velo che tenta di nascondere una sconfortante realtà.


Il detto riassume magistralmente la storiella della formica e della cicala: è la prima, sazia e satolla, che canta in barba ai rigori invernali che invece provocano la morte della seconda.

Quale altro detto esprimerebbe meglio la tarentinità; quale altro modo di dire chiarirebbe più sinteticamente perché il gusto estetico abbia dovuto cedere al “pratico buon senso” del massimo risultato col minimo investimento; quale espressione sarebbe più didascalicamente esplicativa nel rivelare come mai latitino cinema, librerie, teatri e auditorium musicali in una città che straripa di pizzerie d’asporto e menù turistici che mensilmente satollano pletore di madri lacrimose e padri fieri di salutare il marziale giuramento di fedeltà alla Patria da parte del figlio, futuro testimone al mondo di come a Taranto lo straniero venga accolto e coccolato; quale altro concetto potrebbe spiegare lungomari cittadini sequestrati da insaziabili installazioni militari, adamantine coste date in pasto a raffinerie petrolifere, ettari di terreni coperti da acciaierie e cementifici, inquinamenti, malattie ed infortuni accettati come “male necessario” ad ottenere lavoro (?), benessere (??) e progresso (???)?

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